I BARDAMÙ E “STRAY BOP”

Scritto da il 24 Ottobre 2019

I Bardamù sono due fratelli, Gianaski Wop e Alfonso Tramontana che da circa vent’anni girano il mondo per creare la loro musica, lasciandosi travolgere dalle influenze dei luoghi in cui vivono. Per registrare le canzoni che insieme scrivono e arrangiano si servono del loro studio mobile per le strade delle città.

 

Iniziamo con la prima domanda, la più classica: chi sono i Bardamù?

Ginaski– Bardamù è un duo composto da me e Alfonso. Il nome si ispira a un libro di Loius Ferdinad Cèline, “Viaggio al termine della notte”, il cui protagonista si chiama Bardamù. Siccome ci riconoscevamo nelle sfumature esistenziali di questo personaggio, lo abbiamo preso imprestito, anzi, lo abbiamo proprio rubato a Cèline.

 

“Stray Bop” è il titolo sia del primo singolo, che dell’album, ma anche di un genere musicale da voi inventato. Da dove avete attinto nel creare questo nuovo genere?

Alfonso– Abbiamo attinto da quelle che sono state sia delle esperienze di vita, sia delle esperienze musicali. Proveniamo dalla musica jazz e dal rap, però, secondo noi, il rap è esso stesso una forma di jazz: il fatto di utilizzare delle metriche si potrebbe assimilare all’improvvisazione che si fa con uno strumento in un brano di jazz. Lo Stray Bop non vuol dire mettere insieme due cose, il jazz e il rap, ma vuol dire creare una coerenza stilistica tra i due linguaggi, che, per di più, nella nostra musica sono tutti suonati: tutto quello che si ascolta è suonato anche nel momento in cui viene campionato. Poi c’è anche un discorso sulla cultura jazz.

Ginaski– Noi ci concentriamo molto sia su uno stile BeBop, che uno stile del jazz anni ’40, ma anche sulla cultura Bop. Quando si parla della cultura americana degli anni ‘40/’50 in riferimento ad esempio al modo di utilizzare le parole con una scansione ritmica, si parla di letteratura jazz. Il rap in questo caso non entra come matrice di una subcultura hip-hop, ma entra come elemento jazz dal punto di vista testuale e puramente concettuale.

 

Veniamo ora a parlare ora dell’album “Stray Bop”, omonimo del primo singolo estratto e del genere. È stato scritto e registrato per le strade di Brooklyn a New York”. Che tipo di esperienza è stata? E quanto Brooklyn ha influenzato i vostri progetti e li ha modificati rispetto all’idea che avevate inizialmente per questo disco?

Ginaski– Innanzitutto stare a Brooklyn è un po’ come sentirsi a casa. È un microcosmo pieno di razze, etnie, religioni, culture, dove ogni giorno si può vivere una vita diversa. Ci sono dei posti magnifici che ti ispirano, come ad esempio il Brooklyn Museum o il Fort Greene Park, dove respiri arte, incontri persone molto interessanti. Il posto in cui vivi per tanto tempo, o anche per un tempo più breve ma comunque intenso, ti contamina in qualche modo e diventa uno scambio inevitabile. Ciò accade, però, se sei disposto a lasciarti contaminare, se arrivi con la curiosità di conoscere e di interloquire senza avere degli schemi o dei preconcetti. Registrare l’album lì è stato interessante perché tutti gli artisti che sono con noi nel disco nella maggior parte dei casi sono di Brooklyn e c’è un’amicizia con loro che è nata proprio stando a Brooklyn. In realtà, non c’era un’idea iniziale studiata a tavolino. È tutto nato di live in live, com’è successo con il singolo “Stray Bop”: avevamo finito il concerto e stavamo facendo una specie di jam session in cui Alfonso suonava il piano, io ho aggiunto la batteria, Sparks ha iniziato a rappare e il brano è nato da una pura contaminazione del momento che stavamo vivendo. E così non c’è stato nulla di così programmato in fase di pre-produzione.

 

Siete calabresi di origini e avete vissuto non solo a New York, ma anche a Cuba, a Barcellona e Madrid. In pratica siete un po’ cittadini del mondo. Non solo da un punto di vista musicale, ma anche da un punto di vista personale cosa vi hanno lasciato tutti questi posti? Se doveste scegliere di andare a vivere in una sola città, quale sarebbe?

Alfonso– Grazie per la domanda molto interessante! Il limite tra essere vagabondi e apolidi a volte è molto sottile. Ogni città in cui ho vissuto mi ha lasciato delle qualcosa di importante e, quindi, mi ha lasciato un’identità. L’essere apolide lo vedo come l’essere asettico, al di sopra di qualsiasi tipo di riconoscimento con un’identità. Quasi tutte le città in cui sono stato mi hanno lasciato delle radici. Ogni posto mi ha lasciato qualcosa, nel bene o nel male. Se io potessi. scegliere vorrei vivere in una “stray land”, cioè in un’unica città immaginaria dove stai passeggiando per Via del Corso a Roma e a un certo punto arrivi a Malecón de L’Avana, per poi andarti a prendere un caffè su via Caracciolo a Napoli e infine ritrovarsi a fare un concerto a Brooklyn.

 

L’Italia, dunque, continuate a sentirla molto vostra.

Alfonso e Ginasky – Certo!

 

Quali sono le differenze tra fare musica in Italia (e quindi andare anche verso una serie di luoghi comuni) e farlo in America?

Alfonso– “Intermezzo” è una traccia del disco che è un po’ una cartina tornasole di come si vive la musica negli Stati Uniti. È difficile rispondere a questa perché si rischia appunto di cadere nei luoghi comuni. Delle differenze ci sono. Negli Stati Uniti la musica si vive ancora in maniera viscerale: se tu vuoi fare un musicista, sai che questo è un percorso che ti porta spesso a vivere in solitudine con la tua arte e il tuo strumento per trovare il tuo stile e il tuo suono, il tuo fine ultimo non è quello di mostrarti alla gente per vedere quello che fai. Al contrario, in Italia negli ultimi anni ci siamo abituati all’idea che un giovane che inizia a suonare non sia interessato alla ricerca di una sua musica, bensì di mostrarsi in pubblico. Questo, magari, ha portato buona parte del pubblico italiano ad avere un rapporto con i social media e la televisione più isterico rispetto a quanto avviene negli altri posti.

Ginasky– Sono perfettamente d’accordo con Alfonso. L’Italia continua ad avere delle grandi problematiche. La prima è che la musica non viene vista come una professione, non solo dal pubblico, ma anche dalle istituzioni. Ad esempio non c’è un ente che ti tuteli, se fai dei live vieni completamente abbandonato a te stesso, non vi è una tutela sotto molti profili. Certo, c’è la SIAE per il diritto d’autore, ma non c’è altro. La musica viene vista come professione solo se fai il musicista classico all’interno di un’orchestra, che è una cosa prestigiosa ed è giusto che un musicista classico venga visto come un lavoratore. Ma anche un musicista punk dovrebbe essere visto come un lavoratore se fa musica. Questo rispecchia un po’ l’ottica generale che si ha in Italia, dove se fai il musicista, la seconda domanda che ti fanno è “Ma realmente, che lavoro fai?”. La musica viene vista come un gioco, tranne nel momento in cui viene filtrata dalla televisione: nel momento in cui smetti di essere musicista e diventi un personaggio televisivo, a quel punto hai un’affermazione anche a livello popolare e istituzionale. Negli Stati Uniti, nonostante non si possa generalizzare, non vedo un approccio poco professionale alle arti. Un ragazzo riesce mediamente a fare autocritica, capire se ha realmente un talento, poi si approccia alla musica con rispetto nei confronti di quella professione e tenta di diventare un professionista. Altrimenti va a fare il karaoke sotto casa, che è una cosa divertentissima, ma non è la stessa cosa di inseguire la strada del musicista. Di queste differenze te ne accorgi anche quando hai a che fare anche con gli addetti ai lavori (discografici, programmatori radiofonici, le agenzie di booking per i live, …): in Italia c’è un approccio più indirizzato a quella che è semplicemente la popolarità di un personaggio, piuttosto a che pensare a dei progetti. C’è tanta gente giovane che fa cose interessanti, ma in tutti i settori, non solo in quello musicale, ma anche in quello audiovisivo, in quello letterario e nel giornalismo. Se sei un produttore musicale non hai alcuna agevolazione, al contrario di quelle che vengono fatte per il libro. Perché per il libro sì e la musica no? Perché il libro è cultura? Certo, il libro è cultura. Ma perché la musica, invece, no? Perché il produttore cinematografico riceve finanziamenti privati e pubblici e il produttore musicale no? Perché la musica in Italia viene trattata come qualcosa di non professionale, ma come di mero intrattenimento o che serve per fare un po’ di spettacolo in tv? Quando si arriverà a capire che la musica è un lavoro e una professione, che i discografici sono dei lavoratori e degli imprenditori che vanno aiutati come tali, probabilmente le cose inizieranno a prendere un’altra piega. Speriamo in tempi migliori.

 

In conclusione, invece, quali sono i vostri progetti per il futuro?

Ginasky– Continuare a fare musica e aspettare di vedere quello che succede in linea generale nella vita, semplicemente per curiosità. Da un punto di vista geografico continuo a vedermi sempre “stay”, randagio, tra l’Italia e Brooklyn. Magari poi ci sarà qualche cambiamento e non sarà più Brooklyn ma un altro posto. Mi piacerebbe continuare a trascorrere metà anno in Italia. Comunque mi vedo molto mobile e sempre nell’ambito musicale, che mi sta dando tanto e mi sta portando anche il pane a tavola. Non voglio fare troppi progetti, perché spesso, più desideri qualcosa, più probabilmente quella cosa non avviene mai. Nel disco, ad esempio, c’è un brano che si chiama “Roll the dice”, lancia il dado, che prende spunto da una poesia di Charles Bukoski dedicata a tutte le persone che decidono di iniziare a fare arte: è un po’ come lanciare i dadi, ma poi devi fare i conti con la fortuna. Oppure come la pallina da tennis di “Match Point” di Woody Allen: puoi fare mille allenamenti e giocare benissimo, ma poi, quando lanci la pallina, se va dall’altra parte hai vinto, altrimenti hai perso.

 


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